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Michele Circiello

Michele Circiello

     L'accertatore di tracce

                                                                    


Critica di Martina Corgnati

Il principio narrativo, la “traccia” archeologico-letteraria di cui l’artista vuole rendere conto, prevale sulla plasticità delle forme, sull’espressione dei volumi: Michele Circiello non è uno scultore tradizionale. E naturalmente nemmeno un pittore semplicemente soddisfatto della pittura: spesso infatti i colori da lui prescelti, vivaci ma non brillanti, pigmenti ad acqua arricchiti da polveri e sabbie, ricordano le tessiture cromatiche dell’affresco tradizionale e riportano a quel mondo delle grotte (ma anche delle cappelle rupestri di cui la Puglia è così ricca) da cui l’intero linguaggio dell’artista prende le mosse. Sono colori luminosi e opachi, ricchi di sfumature e vibrazioni nel fondo, più compatti e monocromi invece nelle figure o animali, questi ultimi ben rilevati dalla superficie grazie a impasti densi di marmi e silicati.

 

Critica di Rossana Bossaglia

E’ difficile dire qualcosa di nuovo di Michele Circiello, della cui personalità si sono occupati numerosi critici di qualità sottile; tra l’altro ciascuno di essi ha scritto giudizi interpretativi personali, ma non mai in disaccordo o in antitesi con quanto espresso dagli altri commentatori. Intanto, la definizione di arte rupestre è una definizione comune che sottolinea non soltanto la fisicità degli effetti di zone montane, ma la loro sostanziosa ruvidezza, e nel medesimo tempo che quanto l’artista rappresenta – o meglio ancora, raffigura – è da un lato la registrazione di immagini ispirate alla natura, e dall’altro la loro deformazione simbolica. Le immagini di Circiello sono con evidenza legate al mondo primitivo, come se sostituissero il precedente dell’evoluzione che la figura umana ha subito nel tempo – sia proprio in quanto persona sia quanto oggetto di rappresentazione.

 

Critica di Paolo Rizzi

Scriveva Gauguin della Polinesia: “L’uomo deve assomigliare al suo ambiente.” Aveva lasciato Parigi proprio per vivere “dentro” un ambiente esotico cui intendeva assimilarsi.
Per Michele Circiello non c’è stato bisogno di partire per viaggi lontani: il “suo ambiente” l’ha trovato vicino al luogo in cui vive, il Gargano. Lì, tra le rocce rupestri, addentrandosi nella necropoli della Salata, tra ipogei e tombe preistoriche, osservando con attenzione le figurazioni tracciate da mani ignote, millenni e millenni orsono, ha trovato se stesso: il suo identikit.
Sono convinto- e lo dico da decenni- che la salvezza per l’uomo e l’artista d’oggi non possa trovarsi che nell’immedesimazione col suo passato: quindi nello studio preliminare delle peculiarità etniche del suo territorio culturale. Questo non sarebbe di per se sufficiente: occorre proprio quella interazione, quell’osmosi, quella capacità dell’artista di compenetrarsi con l’oggetto del suo interesse fino a farne oggetto d’amore. L’amore di Circiello lo si percepisce subito: le sue opere, così suggestive e singolari, accendono la curiosità archeologica di una fiammella che direi lirica: ed ecco che sulla materia screziata di sabbia, tra i frammenti di terra, i sassi e le schegge, riconosciamo una specie di aurorale trasfigurazione del motivo rupestre, un afflato mitopoietico, un rivivere l’antico con spirito d’oggi.

                                           

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